«Noi, madri separate a forza dai figli»
«Noi, madri separate a forza dai figli» Nè abusi, nè violenze: è bastato un dossier degli assistenti sociali per togliere i bimbi a Giuletta e Angelica Questa è la storia di Angelica e Giulietta. Che hanno fra i 30 e i 40 anni e che non si erano mai viste fino a qualche mese fa, quando si sono incrociate in un corridoio del tribunale, si sono guardate, hanno scambiato poche parole e hanno scoperto di non avere niente in comune tranne le seguenti cose: tutte e due erano diventate madri in condizioni difficili, tutte e due si erano rivolte a strutture pubbliche sperando in un aiuto, tutte e due ne hanno ricavato invece - per ordine del Tribunale dei minori - la separazione dairispettivi figli (inventiamo un nome anche per loro) Gaia e Marcello. Perdita dapprima parziale, con la trafila consueta delle visite sotto sorveglianza, ma che ora rischia di diventare definitiva, con la revoca finale della potestà e poi con la successiva - in uno dei due casi già pronunciata - dichiarazione di «adottabilità». «Intendiamoci - dicono all' unisono Angelica e Giulietta -: noi non vogliamo affatto mettere in discussione l' autorità del tribunale dei minori, che senza dubbio agisce in buona fede. E può anche darsi che noi, nella nostra vita, abbiamo avuto qualche problema: ma è possibile che, davvero, il bene dei nostri figli consista nell' essere separati per sempre da noi?». Attenzione: in queste due storie non c' entrano né violenze né abusi né abbandoni. No. Il parametro in discussione si chiama «capacità genitoriale». E consiste in quel che segue. La prima vicenda a iniziare è quella di Giulietta che dieci anni fa, ventisettenne, si trasforma da ragazza in ragazza-madre. La sua famiglia non l' aveva presa bene, la notizia di quella gravidanza. Ed è per quel motivo che Giulietta, cacciata di casa, aveva pensato di rivolgersi ai servizi sociali: sportello di via Sanzio. Spiegando che le serviva più che altro un posto dove andare a vivere col suo Marcello. I servizi prendono nota e, fedeli alla prassi, segnalano il caso al Tribunale dei minori. Nel frattempo Marcello nasce, e di fronte quel frugoletto anche la mamma di Giulietta riscopre il suo animo di nonna: che riprende in casa tutti. Anche la vecchia relazione dei servizi sociali, tuttavia, ha ormai iniziato il suo corso: «Madre in stato di abbandono...», «bambino a rischio...». Passano gli anni e Giulietta incontra un nuovo compagno, lo segue insieme col figlio, concorda col giudice una serie di regole, ma anche la nuova relazione si conclude male. L' uomo l' accusa di essere «pazza e drogata», lei risponde con una fila di certificati medici che dicono il contrario, il tribunale decide: nell' aprile ' 97 Marcello viene affidato a una comunità. In quegli stessi mesi, in un altro quartiere di Milano, sta per cominciare la storia di Angelica. Che di mestiere, in quel periodo, fa la modella pubblicitaria e problemi di soldi non ne ha: possiede una casa, ha un' autonomia economica, ma ha anche la ventura di ritrovarsi ad aspettare una figlia da un ragazzo tossicodipendente che sul più bello prende e se ne va all' estero. Angelica si rivolge al Centro di aiuto alla vita presso la clinica Mangiagalli: «L' unica cosa che voglio - dice alla fine - è tenere questa bambina. Mi date una mano?». Gli operatori prendono nota. E una copia della nota, anche questa volta, finisce al Tribunale dei minori. Finché nasce Gaia. Il dettaglio che farà la differenza rispetto a un sacco di altre nascite simili è che sua madre compila il modulo di riconoscimento con un giorni di ritardo. «Perché voleva aspettare che il padre della bambina firmasse quei fogli assieme a lei», spiega il suo legale Livia Verrilli. E d' altra parte in quei giorni c' è pure qualcosa di più grave a cui pensare: la piccola Gaia soffre di una cardiopatia che impone un monitoraggio 24 ore su 24, una terapia delicatissima a orari fissi, la presenza costante di qualcuno al suo fianco... Angelica s' ingegna. Ma quel giorno di ritardo, sommato alla «richiesta di presa in carico» formulata mesi prima del parto, per il tribunale ha un peso più forte. E all' ospedale pediatrico Buzzi, dove Gaia era stata nel frattempo trasferita, un bel giorno si presenta una signora che, mentre la madre della piccola è fuori dal reparto, affronta il primario e gli dice secca secca: «Mi mandano i Servizi sociali, questa bambina la prendo io». Il primario dell' ospedale, il dottor Massimo Fontana, scrive un immediato fax di protesta al Comune e al tribunale: «Ritengo che questa procedura bulgara non contribuisca all' instaurarsi di un rapporto di collaborazione...». Angelica è livida di rabbia, ma alla fine manda giù: «Devo andare in una comunità per mamme e bambini con mia figlia? Va bene: pur di stare con lei andrei anche a Timbuctù». Il rapporto che si instaura con la suora reponsabile della comunità prescelta non si rivela dei migliori: «Non sa neppure tenere in braccio sua figlia», scrive la religiosa. «È una madre premurosa e se ogni tanto perde le staffe è perché viene esasperata», scrivono altri operatori al tribunale. Testimonianze non debitamente «sottoscritte», replicano i giudici. Ci avviciniamo al duplice finale. Marcello si trova attualmente in una comunità-famiglia in Piemonte, sua mamma Giulietta ha da tempo un compagno stabile, ma i periti del tribunale hanno stabilito in ottobre che la donna nutre nei confronti di suo figlio «un affetto eccessivo», da cui il bambino va «protetto». Ora può vederlo due volte al mese, sotto sorveglianza. In dicembre il tribunale le ha tolto la potestà, nei prossimi giorni c' è l' appello. Gaia, invece, è stata dichiarata formalmente «adottabile» due mesi fa. Angelica non può incontrarla da allora. A sua disposizione c' è, anche per lei, un ricorso e una possibilità di appello.
[FONTE: Il corriere della sera]